IL GIOCO E LA PANDEMIA

Fra le opportunità che offre il mondo digitale grazie ai suoi continui sviluppi, accelerati dal contesto generato dal Covid, una posizione primaria la merita la possibilità di condurre campagne di sensibilizzazione verso il pubblico o i governi, in modo semplice, economico, snello e anche efficace. Fino a qualche anno fa queste attività richiedevano tali e tante energie da scoraggiare anche i più indomiti sostenitori di cause di ogni tipo. Oggi per raccogliere firme o contributi, sostenere iniziative o sottoporre ai governi petizioni si può contare su un potente alleato: la rete digitale. Disponiamo ormai di nuovi strumenti veloci ed economici per far conoscere situazioni ed esigenze altrimenti destinate a restare nell’ombra. Dietro allo studio di straordinarie “piattaforme” informatiche va tuttavia ricordato che ci sono intelligenze particolari, persone che dedicano tempo e concentrazione per trasformare un freddo aggregato di bit in qualcosa di utile e fruibile con semplicità. Sono persone normalmente poco inclini a farsi notare, ma che andrebbero gratificate pubblicamente perché, grazie a loro, cose altrimenti difficili e spesso di importanza rilevante si trasformano in strumenti intuitivi, chiari e a portata di mano. Ma ci sono anche altre persone che, dotate delle medesime capacità di maneggiare i bit, si prestano ad elaborarli per la realizzazione di giochi cui molti, giovani e meno giovani, si appassionano anche in modo compulsivo. Non ho nulla contro il gioco, ma sono sicuro di non essere il solo a dire che è opportuno riflettere sul fatto che troppo spesso questi giochi sono pervasi da stimoli alla violenza attraverso i quali si “procede vittoriosi” nel gioco. Anche il cinema contiene spesso questi stimoli e la tv in generale ne è pervasa. Ma i giochi prevedono interazione e questo diventa un’aggravante perché “educa” a costruire abilità che andrebbero invece “diseducate”. Abili “manovratori di bit” studiano invece giochi e livelli di “gioco” per superare i quali è necessario far proprio un pensiero criminale, violento, sanguinoso. E trovo folle e irresponsabile che questo “esercizio” sia consentito nella produzione di “giochi” da vendere in gran serie con l’enfasi tipica di cui sono capaci le aziende interessate. Giochi che generano danni sociali permanenti gravi, più o meno evidenti, che si potrebbero evitare se i manovratori di bit e soprattutto i loro committenti, fossero obbligati a passare periodici e particolari esami d’idoneità prima di essere autorizzati a ideare o commissionare giochi. Dovrebbe passare un esame ad hoc anche chi licenzia, commercializza e promuove certi giochi avvalendosi di testimonial noti in altri contesti, o resi noti dalle multinazionali che li hanno assoldati per diventare “ambassador” del brand o del “gioco” specifico. Questa commistione di scopi, interessi e necessità delle diverse parti, continua a generare una terrificante “evoluzione” della nostra specie orientandola verso una china pericolosa. Il sistema del cosiddetto “intrattenimento”, sviluppando e diffondendo modelli di “gioco violento” ha generato mostri che esteticamente non sembrano tali e che, peggio ancora, vengono seguiti da chi è destinato a diventare apprendista mostro. Certo il gioco genera anche lavoro, ma gran parte del lavoro che “genera” è solo un utile strumento per distrarre alcune migliaia di persone che altrimenti insorgerebbero se fossero consapevoli della società in cui nascono e crescono. Questo genere di giochi, online e non, hanno già generato forme di dipendenze apparentemente innocue, ma che nei fatti distolgono l’attenzione dalla realtà e generano spreco di intelligenza e assenza di responsabilità e consapevolezza. In molti casi il problema va anche oltre il gioco, che in alcuni casi diventa compulsivo, portando il “soggetto” (quasi sempre giovane) a isolarsi dal mondo reale se non addirittura a non riconoscere la differenza fra reale e virtuale. Esiste ormai una nutrita popolazione di giovani che come conseguenza di questi “giochi”, seguono altri giovani e popolano la rete con video demenziali e imbarazzanti seguiti, appunto, da milioni di “fan”. Nuovi “personaggi”, definiti “produttori di contenuti” da aziende e agenzie che agiscono per loro come veri e propri agenti, come accade per le star del cinema. Una pandemia.

Pietro Greppi

ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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