Mettiamoci il dito
Il dibattito in corso sul futuro di Assocom (già Assocomunicazione – già Assap), al netto dei più stretti partecipanti, interessa praticamente a nessuno. L’eventualità che i reggenti pro tempore decidano di fonderla in un intruglio comprendente tutte le congreghe vivacchianti nell’italico comparto della comunicazione pubblicitaria, o di farla diventare la succursale italiana del Circolo Pickwick, non riuscirà comunque a dissolvere l’equivoco di fondo sul quale ormai da troppo tempo si regge il sistema delle associazioni di categoria.
Tutti sanno che il business dell’advertising mondiale è quasi completamente in mano a quattro grandi società: la britannica Wpp, la francese Publicis e le americane Omnicom e Interpublic. E tutti sanno che queste società, attraverso le loro sedi distaccate a Milano, Torino e Roma, si spartiscono la torta degli investimenti pubblicitari che si fanno in Italia.
Anzi, visto i tempi che corrono, abbattono i loro fees pur di non rinunciare neppure alle briciole che prima della crisi lasciavano alle piccole e medie agenzie italiane. All’imprenditore sull’orlo del fallimento che oggi piange miseria, ma che fino a poco tempo fa si pavoneggiava per il solo fatto di essere stato ammesso al tavolo delle grandi sigle, bisognerebbe dire “È la globalizzazione, bellezza!”.
Ma la palma d’oro per l’ipocrisia dovrebbe essere assegnata alle associazioni di categoria, Assocom in testa. Sono loro, sempre in prima fila ad auto-proclamarsi paladine degli interessi di tutti gli associati, che hanno finto di non vedere il processo di colonizzazione economica e culturale che si materializzava sotto gli occhi di tutti.
Sono loro che, incuranti di promuovere la ricerca di un’originale “via italiana alla pubblicità”, da condividere con tutti i protagonisti del processo (utenti, tecnici e consumatori) hanno lasciato spazio all’improvvisazione di molti sprovveduti parvenus e incentivato la stolida imitazione dei modelli d’importazione.
Oggi qualcuno si stupisce che le majors anglo-franco-americane, raccolto tutto il sugo che c’era nel nostro piatto, impongono ai loro consoli in Italia di contenere i costi ristrutturando, licenziando ed evitando spese superflue, comprese le quote di adesione da versare ad istituzioni ininfluenti tipo Assocom.
Cosa dovrebbero fare di diverso? Hanno già eliminato tutta la concorrenza più qualificata, hanno messo la museruola a parecchi talenti nostrani e si sono accaparrati i budget che i grandi investitori italiani (i pochi che non hanno ancora venduto l’azienda ai cinesi o agli arabi) decidono di destinare alla promozione dei loro prodotti sul mercato domestico e internazionale. Questa è la cruda realtà, e il patetico tentativo di salvare la faccia messo in scena dai provvisori dirigenti di Assocom con la campagna stampa che attribuisce tutta la colpa all’Irap e al costo del lavoro ne è la conferma.