ANCHE GLI INGLESI SONO OBESI?

Gli inglesi mangeranno anche male, ma almeno ne sono consapevoli. E anche da loro ci sono, come da noi, gruppi di persone più consapevoli di altre nel cogliere la stretta relazione fra obesità, soprattutto infantile, e cibo spazzatura. Ma poi con una certa sottile intelligenza queste persone (ora parliamo dell’Inghilterra, ma anche da noi qualcosa si muove) analizzano quali possano essere le cause più subdole del semplice fatto che se mangi cibo spazzatura troppo spesso diventi obeso … che è una correlazione ormai assodata. Per cui qualcuno ha cominciato a chiedersi: perché le persone (soprattutto bambini) sono così attratte dal junk food di ogni tipo? Indovina indovinello, non è questo, forse è quello … indovinato? La risposta che si sono dati è che, con buona evidenza, una delle cause sia la pubblicità di quel genere di prodotti, che nella quotidianità degli individui è particolarmente presente, ammiccante e persuasiva. Pare quindi si siano accorti che la pubblicità è uno strumento che funziona, ma che funziona meno se ne limiti il suo potere pervasivo e che sia allora opportuno limitarla quando il suo effetto “commercialmente positivo” (quello richiesto dagli inserzionisti) genera effetti collaterali socialmente negativi. E da qui arriviamo a quella che è diventata una notizia: Boris Johnson, primo ministro inglese, pare abbia da poco formalizzato la presentazione di un progetto di legge che prevede di vietare la pubblicità televisiva, dei prodotti alimentari e delle bevande più caloriche, prima delle ore 21. Una bordata contro il cibo spazzatura che potrebbe entrare in vigore dal 2023 impedendo, fino a quell’ora, la trasmissione di spot di quel genere di prodotti in tv. Il fragore della notizia è amplificato dal fatto che pare che il provvedimento riguarderà anche il web (non occuparsene sarebbe stato miope) e tutte le forme di marketing digitale a pagamento, le inserzioni su Facebook, Instagram, Twitter e i risultati di ricerca a pagamento su Google. Un terremoto commerciale insomma, che ahimè fa più rumore del fatto che ridurre le tentazioni verso i junk food ha dei risvolti di cui beneficia la salute pubblica. Non è direttamente calcolabile l’impatto –pur se ampio- che ha l’obesità sulle strutture sanitarie e sull’intera comunità. Si potrebbe però dedurre osservando i dati terribili che colpiscono gli USA, ma vedremo. È invece più facile calcolare le sofferenze di chi su quei passaggi pubblicitari ci conta. Infatti si stima che nel Regno Unito si spendano annualmente circa 400mln di sterline solo per la pubblicità online di food, mentre sarebbero 200 i milioni di mancato incasso per le varie emittenti del Paese. L’industria alimentare e quella editoriale han già fatto sapere che non staranno a guardare. Pare allora che, per ammorbidire tale impedimento, il Governo britannico abbia previsto di permettere la pubblicità del solo marchio associato ai cibi in questione, a patto di non visualizzare i prodotti. Pare invece che non subiranno restrizioni le pubblicità su podcast, radio, cartelloni pubblicitari, autobus, stazioni ferroviarie e aeroporti.

Anche in “casa nostra” le cose potrebbero (finalmente) arrivare ad imitare quel genere di provvedimenti. Già si osservano i preventivi (miopi) commenti di noti rappresentanti del panorama pubblicitario che si spingono a commentare quanto sia incredibile che una storica democrazia possa imporre alla gente e alle aziende dei limiti alimentari e di comunicazione. A costoro faccio notare che, quanto accade in quella monarchia, non è un’imposizione su come nutrirsi (che semmai deriva dalla grande efficacia del martellamento pubblicitario di chi tende a imporsi a scapito di altri) e che sul “quando e quanto” comunicare riguarda invece un consapevole argine orario, simile alla nostra ipocrita fascia protetta. Ogni cosa che porti con sé potenziali controindicazioni dovrebbe sempre contenere una forte dose di responsabilizzazione sociale che, laddove mancasse, andrebbe “imposta”. Pagare spazi è un privilegio di pochi. Chi popola il mondo della comunicazione, non solo quella commerciale, dovrebbe essere sempre consapevole anche della sua responsabilità sociale. Il nostro IAP è solo un esempio (insufficiente) di quanto sia necessario introdurre qualcosa di simile ad un governo di quel mondo parallelo che chiamiamo pubblicità.

Pietro Greppi

Ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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