This Must Be the Creative

Io l’’ho visto arrivare il Mac in Italia. Era tardi, era un mattino del gennaio del 1988. Teniamo conto che il mitico commercial di lancio, copy Steve Hayden che poi fu mio mega creative director in Ogilvy, era del 1984.

 Quel mattino del 1988, avevo ventidue anni, entro nell’’ufficio di Giancarlo Livraghi e vedo una scatola metallica beigiolina appoggiata sul tavolo.

 Mi appropinquo, la schermata era quella di MacPaint. Muovo con circospezione il mouse. In una specie di trance scelgo il pennello, vado sul foglio bianco, muovo la mano verso il basso e…meraviglia delle meraviglie di tutte le meraviglie del mondo…sullo schermo appare un segno. Mi guardo intorno esterrefatto. Ero come Aureliano Buendia davanti al ghiaccio di Melquiadès.

Ebbene, sembra banale ma non lo è, da quel momento il lavoro del creativo non è stato più lo stesso e ha varcato una soglia pericolosa. Fino a quel giorno l’’atto creativo, anche del creativo medio o medio scarso, era demandato esclusivamente al foglio, alla matita, alla penna, alla macchina da scrivere e al pennarello.

Certo c’’erano le fonti, ma erano fonti che il creativo doveva pensare, trovare, analizzare. Libri, long playing, annual, cataloghi.E poi i fi lm al cinema, in beta, in vhs.

E ancora mostre, musei, concerti. Insomma, un enorme sbattimento, anche fisico, che però determinava conoscenza diretta e critica.

Oggi il creativo medio, figuriamoci il medio scarso, si muove in modo molto diverso. Parte da parole generiche che assume da un brief generico, le butta nel mare medio della rete e sta a vedere cosa vien su.

Il mare di YouTube è quello più pascolato e quello che sale a galla è inevitabilmente qualcosa di già elaborato, altrimenti non sarebbe lì. Non è che voglia fare l’’anti-tecnologico, ma la differenza è essenziale.

Nel fi lm Th is Must Be the Place di Sorrentino c’’è una scena che riassume questo cambiamento. È quello scambio di battute tra Sean Penn e un ragazzino, il quale chiede alla vecchia rockstar: «Canta Th is Must Be the Place degli Arcade Fire’”.

Sean Penn con aria annoiata lo guarda e gli dice: «Th is Must Be the Place non è degli Arcade Fire, è dei Talking Heads». Nessuna nostalgia, intendiamoci, nessun rimpianto, solo una considerazione sull’’uso corretto delle fantastiche tecnologie che abbiamo a disposizione. Perché è vero che gli Arcade Fire hanno eseguito diverse volte quella canzone, ed è un bene che un quindicenne la scopra attraverso loro su YouTube.

Ma se non sa chi l’’ha scritta, quando e perché, se non ha la curiosità di andare a sentire la versione originale e tutto il meraviglioso album Speaking in Tongues al quale appartiene, significa che non ha capito proprio un beato.

Riccardo Robiglio

riccardo.robiglio@leoburnett.it 

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