Native advertising, gli editori Usa si autoregolamentano. E gli italiani?

iphoneIn Usa la logica che sta prevalendo è quella dell’autoregolamentazione. Cosà accadrà in Italia è presto per dirlo, ma certamente prima o poi dei limiti andranno fissati anche da noi. Condé Nast ci ha tenuto a chiarire e ha messo a punto una sporta di Magna Carta: ha chiesto cioè un contributo di pensiero critico a tutti i propri “publisher” per elaborare un documento di 4000 parole circa che riassume la filosofia di base di tutte le operazioni di native advertising delle testate del gruppo. Il tema è ovviamente spinosissimo e – da qualche mese a questa parte – sempre più attuale; negli Usa, ma anche in tutti gli altri Paesi in cui questa formula di advertising sta prendendo piede, ridisegnando i confini di ciò che è lecito fare in termini di “sponsorizzazione” dei contenuti da parte dei brand “clienti”. Questo sforzo di regolamentare del celebre gruppo editoriale è comunque arrivato dopo quelli di Hearst e Time Inc. che hanno già messo nero su bianco quali fossero i confini del fattibile su questo versante. Il documento di Condé Nast, a quanto pare, entrerebbe nel merito non solo delle questioni inerenti il tipo di pubblicità e formati ammessi, ma anche su aspetti legali e argomenti come la costruzione di banche dati consumer e il rispetto della privacy, che sono ovviamente strettamente connessi. Tra le cose decise, la rinuncia alla presenza di firme e loghi editoriali nei pubbliredazionali dell’era digitale.

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