FOTOGRAFIA DI UN CTU

L’etica va intesa come consapevolezza della responsabilità del proprio comportamento in senso lato. Ancora una volta ho chiesto una testimonianza che riguarda il settore della fotografia, sul piano dei suoi aspetti legali, a Guido Alberto Rossi che ne sa una più del diavolo. E mi ha detto quanto segue: “Nel 1980 il direttivo dell’AFIP (Associazione Fotografi Italiani Professionisti) pensò che tra i periti del tribunale di Milano sarebbe servito anche un CTU fotografo esperto super partes (consulente tecnico d’ufficio) per affiancare i giudici. L’idea era nata per via di molte cause che coinvolgevano fotografi con fantasiose sentenze perché i giudici agivano non conoscendo minimamente la materia oltre a diffidare dei periti di parte, in genere più bugiardi e prezzolati degli avvocati che li assumevano. L’incarico di CTU mi cascò sulla testa e venni nominato con tanto di pergamena. Erano gli anni Ottanta, anni d’oro per via dei budget “pozzi senza fondo” delle agenzie. Anni in cui, per esempio, un’agenzia riuscì a convincere un produttore di maglieria intima ad andare a fotografare magliette e mutande alle Maldive, adducendo che la luce dell’Oceano Indiano era l’ideale: partirono in tanti e visto che nel gruppo c’erano anche tre modelle per i reggiseni quarta misura, il cliente volle partecipare alla spedizione per controllare il lavoro da vicino con la velata speranza di una storia romantica lontana dalla Brianza. Tornando all’incarico di CTU, fui inserito negli elenchi del tribunale come esperto di fotografia e stampa. Molti, non capendo bene cosa volesse dire esattamente, mi chiamavano spesso per cose che con la fotografia non c’entravano nulla … come quel giudice che mi telefonò ordinandomi di recarmi immediatamente alla portineria dello stabilimento Alfa Romeo di via Gattamelata. Sapevo che l’Alfa ormai si era spostata ad Arese da diverso tempo e che stavano già demolendo per costruire la nuova fiera di Milano. All’arrivo trovai il giudice e un gruppetto di persone che si guardavano in cagnesco tra le macerie dell’ex portineria. Il giudice mi chiese perché non avevo portato la macchina fotografica: gli spiegai che non mi aveva spiegato che avrei dovuto fotografare il luogo dove era avvenuta una scazzottata tra operai e portinai. Tuttavia il luogo del misfatto era già stato demolito dalle ruspe. Come CTU avevo anche il potere di mediare un accordo extragiudiziale tra le parti e chiudere velocemente certe grane, ma trovai spesso avvocati che guardavano al loro interesse e non a quello dei loro clienti preferendo andare avanti a oltranza. Penso fossero questioni legate al loro portafoglio. Prima di portare in cantina la pergamena di CTU incorniciata dando fine alla mia carriera forense, ebbi modo di vivere un paio di vicende da Oscar della stupidità. Un fruttivendolo fece causa al fotografo che aveva realizzato l’album del suo matrimonio con la motivazione che le foto erano brutte e che non lo avrebbe pagato, ma voleva comunque l’album. Convocate le parti ed esaminato il corpo del reato, notai che le foto erano perfette. Le uniche cose brutte erano gli sposi e i parenti. Consigliai al querelante di pagare e portarsi a casa l’album spiegandogli che nella mia memoria al giudice avrei dato ragione al fotografo. Nella sua ingenuità il fruttivendolo mi confidò che a lui le foto piacevano: era il suo avvocato che gli aveva consigliato di fare causa per non pagare l’album e in cambio voleva pomodori e banane gratis. La cosa ovviamente fini lì, ma nel mio rapporto al giudice spiegai la squallida vicenda nella speranza che l’avvocato venisse condannato all’ergastolo che gli avrebbe garantito le classiche arance. Ma il caso più bizzarro fu quello in cui un’agenzia pubblicitaria fece causa al cliente italiano che si rifiutava di pagare il costosissimo servizio fotografico fatto a Miami (Florida) per i suoi capi d’abbigliamento e che quando il lavoro venne proiettato (all’epoca si usavano fotocolor e proiettore) a metà spettacolo lasciò la riunione e chiamò due grossi uscieri per cacciare il pubblicitario con il suo seguito, i fotocolor e il proiettore. Esaminai le foto: fossi stato il cliente avrei agito allo stesso modo perché quei geni della reclàme erano volati a Miami per fare brutte foto a modelli dall’aria emaciata, ripresi di notte con la luce azzurra del flash e una palma spelacchiata che potevano trovare anche a San Remo. I colori delle stoffe erano tutti sballati e vista l’illuminazione utilizzata dal fotografo non si vedevano i dettagli dei capi. Così l’agenzia pensò di rifarsi chiedendo i danni al fotografo (l’unico che era stato pagato) che però, alla fine di ogni sessione di riprese, si faceva firmare per approvazione i relativi polaroid dall’art director dell’agenzia. Ma a Miami i cocktail erano ottimi.”

Pietro Greppi

Ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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