La morale del virale

Sono seduto nell’ufficio del responsabile della comunicazione di una grande azienda. Bell’ufficio tecnologico con vista su blade runner, l’operosa piana padana. Una tragedia. Ad un tratto il dirigente mi guarda con aria astuta e mi fa «Robiglio sa cosa ho pensato?» e lascia passare qualche secondo lasciandomi rosolare nella curiosità.

ùDopo quei fatali istanti l’uomo si dichiara: «Ho pensato di fare un viral, di quelli molto clickati. Costa poco e facciamo il botto. Lei ha qualcuno di quei ragazzi che fanno quei filmetti?».

Ho guardato fuori dalla finestra in cerca di una qualche ispirazione, di un segno, di una luce, di un bagliore di saggezza e blade runner (capostipite delle moderne amenità) me l’ha data. Mi sono avvicinato con la sedia al tavolo e con aria abbastanza astuta (ogni tanto mi viene) gli ho detto: «Ho la cosa giusta. Senta qua.

Una bella ragazza vessata da sorellastre e matrigna è costretta a far la serva e a vestire stracci. La sera del ballo a palazzo reale, una fata la trasforma in principessa, e appena il principe la vede se ne innamora disdegnando le sorellastre.

Ma la magia finisce all’improvviso, la ragazza torna stracciona, scappa e perde una scarpetta. Facendo provare la scarpetta a tutte le ragazze del paese il principe ritrova l’amata e la sposa».

Il capo della comunicazione mi guarda perplesso. Molto perplesso. Di base mi stima, per quanto si possa stimare un copywriter, quindi prima di mandarmi a fare in culo ci pensa, per educazione.

Si dà uno sganassino alla guancia per essere sicuro di non essere dormiente e ribatte: «Ma è Cenerentola». Io approvo: «Esatto, Cenerentola. Sono certo piacerà a parecchia gente». Il dirigente sogghigna, si allontana dal tavolo sulle rotelle della sedia e mi guarda di nuovo.

Ho già detto che mi stima, quindi accantonato definitivamente il proposito di mandarmi a fare in culo, sorride e conclude: «Ok Robiglio ho capito. Però mi trovi velocemente qualcosa di bello per comunicare anche sul web altrimenti la mando a fare in culo».

La prima morale di questa scenetta è che virale è un aggettivo e non un sostantivo. Virale indica la qualità di un qualcosa e non il qualcosa.

L’aggettivo virale viene dalla parola virus e, se non si sottendono orride pandemie, si usa per descrivere cose talmente piacevoli da generare tra le persone un passaparola contagioso, virale appunto.

Tutto può essere virale, tutto può generare il passaparola: una barzelletta, una canzone, un gioco, una foto, una storia, una notizia. Dal che se ne deduce che virale oltre a non essere un sostantivo non è neppure un film. Prendere nota per cortesia.

La seconda morale è che chiedere a un’agenzia ’“fatemi un virale’” è come chiedere a uno scrittore ’“scrivimi un best seller’”. Non ha nessun senso. Anticipo l’obiezione e rispondo: il caso Psy non è nato a tavolino. Gli è scoppiato tra le mani.

L’ultima morale è che un film pubblicitario non costa in base al media che lo ospiterà ma in base alla qualità che ti aspetti. Se vuoi un film fatto bene devi spendere dei soldi. Se hai pochi soldi avrai un film da poco. Le cose stanno così e non si capisce perché dovrebbe essere altrimenti.

Se spendi tre euro per una bottiglia di vino non puoi aspettarti un grande spettacolo, a parte quello di passare la notte abbracciato al water. Attenzione però che la regola non vale al contrario. Cioè non bisogna pensare che spendere tanti soldi sia garanzia di un buon risultato.

Il film può venire comunque una vaccata. E’ lo show business, bellezza, e tu non puoi farci niente. A differenza della virilità, che può avvalersi del viagra, la viralità non è serializzabile.

Fatevene una ragione, amici delle aziende, e non dite più ’“Fatemi un viral’”.
La comunità dei creativi vi ringrazia commossa.
 

Riccardo Robiglio

riccardo.robiglio@leoburnett.it

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