ECOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE… CHI LA INQUINA?

Ecologia è un termine che viene inteso genericamente come “attenzione alla salvaguardia dell’ambiente naturale agendo nell’intento di limitare o eliminare ciò che può essergli nocivo”. È tuttavia molto diffusa l’abitudine ad estendere il significato di molti termini a contesti diversi da quelli che li hanno generati in modo preciso, trasformandoli in metafore per spiegare altro o aggiungendogli appunto significati anche molto lontani da quello originario. Per questo mi ritengo autorizzato anch’io a usare il termine “ecologia” trasferendone il significato nell’ambito della comunicazione. L’ecologia della comunicazione, nello specifico, è infatti da me intesa come l’attenzione alla salvaguardia del naturale scopo della comunicazione agendo nell’intento di limitare o eliminare ciò che può essergli nocivo in termini di credibilità e reputazione. E non vi stupirà quindi se intendo rivolgermi a tutti coloro che della comunicazione hanno fatto il loro “lavoro” al servizio del commercio, trasformando il termine “comunicazione” in “pubblicità” e che di conseguenza dovrebbero tutti essere, o sentirsi, “obbligati” a rispettare soprattutto indicazioni di comune buonsenso. Indicazioni ben definite e riassunte anche nel Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, altrimenti noto con la sigla IAP, la cui elencazione “ha lo scopo di assicurare che la comunicazione commerciale, nello svolgimento del suo ruolo particolarmente utile nel processo economico, venga realizzata come servizio per il pubblico, con speciale riguardo alla sua influenza sul consumatore. Il Codice […] e l’insieme delle sue regole, esprimendo il costume cui deve uniformarsi l’attività di comunicazione, costituisce la base normativa per l’autodisciplina della comunicazione commerciale.” Anche lo IAP quindi riconduce la pubblicità alla comunicazione commerciale.

Particolare attenzione alla funzione della comunicazione e quindi (per estensione) anche all’ecologia della comunicazione, si registra nei primi due articoli del Codice: “Art.1 -La comunicazione commerciale deve essere onesta, veritiera e corretta. Essa deve evitare tutto ciò che possa screditarla. Art.2 -La comunicazione commerciale deve evitare ogni dichiarazione o rappresentazione che sia tale da indurre in errore i consumatori, anche per mezzo di omissioni, ambiguità o esagerazioni non palesemente iperboliche, specie per quanto riguarda le caratteristiche e gli effetti del prodotto, il prezzo, la gratuità, le condizioni di vendita, la diffusione, l’identità delle persone rappresentate, i premi o riconoscimenti. Nel valutare l’ingannevolezza della comunicazione commerciale si assume come parametro il consumatore medio del gruppo di riferimento.” Tuttavia, nelle ultime parole che estendono l’Art.2, si intravede una certa consapevolezza del fatto che il pubblico consumatore non può essere ragionevolmente considerato né come entità uniforme sul piano culturale, né dotato di quel sano e necessario spirito critico nei confronti dei messaggi che lo raggiungono, permeati spesso da meta-significati. Questa posizione manifesta anche una certa tolleranza nei confronti di quei -numerosi- produttori di contenuti della comunicazione commerciale che sentono la “necessità” (?) di formulare iperboli prive di senso o di attinenza alla realtà. Come dire: “siamo consapevoli che gli esercizi verbali utilizzati dai pubblicitari necessitano di una certa capacità di “lettura”, ma non possiamo pretendere che possano riuscire a farsi capire da tutti.” Questa tolleranza, se da una parte ha certo lo scopo di alleggerire le frequenti diatribe con le associazioni dei consumatori, dall’altra apre la strada a quelli che io definisco “saccheggiatori” del vocabolario. Con questo termine identifico tutti coloro che utilizzano le parole che conosciamo, con la stessa “leggerezza” con cui i saccheggiatori di risorse comuni utilizzano il bottino accaparrato. I saccheggiatori, infatti, spesso non conoscono il vero valore di ciò che saccheggiano, né il suo corretto utilizzo. Di conseguenza non è raro che inquinino l’ecologia della comunicazione e lo facciano anche quando parlano proprio di ecologia, bio, responsabilità, sostenibilità… E la cosa ancora più grave è che qualcuno giustifica certi sproloqui definendoli “marketing” o “creatività”.

Pietro Greppi

ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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