IL CENTESIMO MANCANTE

Non è il titolo di una nuova trilogia o il nome di un teorema matematico, ma la fotografia di un comportamento, da tempo dominante, che fa sorgere una domanda: cosa passa “seriamente” per la mente di chi indica i prezzi togliendo un centesimo o un euro (19,99 o 399)? La risposta non è poi così difficile da dare. Si tratta di un gioco palesemente psicologico, l’intento di far sembrare il prodotto meno costoso di quanto sia in realtà. Ma il punto è: che gioco è? Come si inserisce in questo comportamento la considerazione dell’intelligenza delle persone cui viene rivolta questo genere di offerta? Che fine hanno fatto le indicazioni del “vecchio” Ogilvy, famoso pubblicitario -di cui è rimasta integra solo la firma a guisa di logo dell’agenzia che ne ricorda l’esistenza- di cui si sente ancora parlare nei convegni e nei testi che affollano gli angoli delle librerie dedicati alla pubblicità? La tecnica del “centesimo (o euro) mancante”, qualche tecnico vi dirà che si applica perché funziona. Ma se è per questo, di stratagemmi per ingannare la mente delle persone ce n’è parecchi altri, spesso studiati a tavolino per nascondere verità commercialmente scomode. Il fatto che certa “psicologia”, che si insegna anche all’Università (!), si applichi per modificare la percezione della realtà, non la rende certo meritevole di ricevere applausi, almeno sotto un punto di vista etico che spero non pensiate sia marginale. Perché, quando lo scopo è solo commerciale e non terapeutico, usare le debolezze, anche quelle piccole, delle persone meno attrezzate per riconoscere questi giochetti, è un comportamento contrario al concetto di responsabilità sociale e di trasparenza, non è etico ed è tutt’altro che lodevole. Sono tanti, troppi, i meccanismi illusori che speculano sulla credulità e sull’ingenuità, sulla distrazione e sulla fiducia delle persone. E la reputazione delle imprese che li usano prima o poi ne fa le spese. Le stesse aziende che poi cercano di correre ai ripari incaricando agenzie di studiare dinamiche “reputazionali”. Comunque sia l’etica dovrebbe reggere un rapporto sano fra individui anche quando uno vende e l’atro compra. E se è certo vero che esistono discipline che studiano azioni e reazioni delle persone (Pavlov) è poi l’uso che se ne fa che fa la differenza. Usare tecniche capaci di incidere sulla psicologia dell’individuo a scopo commerciale produce danni culturali di cui non sono ancora pienamente note le dimensioni. Suggerirei quindi, anche “ai Leoni di Cannes”, di riflettere su quanto la società sia confusa, impaurita, stordita, disorientata … e sul degrado culturale e sentimentale in cui siamo piombati, in cui anche la pubblicità ha le sue responsabilità.

Si può sperare o no, che chi lavora in pubblicità comprenda che il suo ruolo può essere determinante per cambiare in meglio tutto il sistema di convivenza sociale? Il Covid19, ahimè, ha dimostrato, nel settore della comunicazione, di quanta retorica siamo capaci pur di cercare di mantenere il ricordo di una marca. Con il risultato (prevedibile) che è stato riprodotto da tutti “lo stesso film”. Chi è del mestiere e ha mantenuto un po’ di spirito critico capisce di cosa parlo. Chiedetevi il perché.

Per alleggerire torno alla questione del centesimo mancante riportando una delle ipotesi “storiche” del suo utilizzo. Quando cominciarono a comparire i primi registratori di cassa, i gestori dei negozi, temendo di essere derubati dai loro stessi cassieri, studiarono un modo per evitare che questi si mettessero i soldi nelle tasche anziché in cassa. Decisero di applicare prezzi di poco inferiori al prezzo tondo, in modo che il cassiere dovesse per forza aprire la cassa per prendere il resto: si apriva il cassetto e la cassa emetteva un suono, così il proprietario sapeva con certezza che i soldi del prodotto venduto erano finiti in cassa. Alcuni registratori di cassa fanno ancora un suono quando vengono aperti … ma è solo una simpatica storia come tante altre. Tornando all’attualità sarebbe più serio e dignitoso che le psico-tecniche cui ho accennato venissero studiate sì, ma come “atti da evitare”. Per il bene di tutti. Anche di vostra madre direbbe Ogilvy.

Pietro Greppi

ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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