LA VERITÀ È BEN DETTA?

McCann Erickson è forse l’unica agenzia di comunicazione che, tanto tempo fa,  coniò per sé un pay off. All’epoca, più di cent’anni fa, venne pensato forse senza intenderlo come ciò che oggi intenderemmo per pay off (che ancora non esisteva come concetto), bensì come indicazione del proprio obiettivo professionale, il proprio posizionamento da trasmettere ai clienti, o almeno l’intenzione di come i fondatori consideravano di dover fare il proprio lavoro: “Truth Well Told”, cioè la verità ben detta. Citare quella frase non è, sia chiaro, una marchetta, tuttavia l’ho sempre trovata significativa di ciò che dovrebbe essere la funzione di chi si incarica (viene incaricato) di comunicare un prodotto o una marca. Un motto che nel tempo è stato probabilmente condiviso intimamente anche da altri nel settore, alla stregua di una guida. Ma usciamo ora dal contesto di quell’agenzia (che grazie alle dimensioni internazionali di molti suoi fedeli clienti è oggi un gruppo mondialmente presente), e tentiamo di non farci distogliere dall’immagine patinata che il sistema della comunicazione produce per sé e per i suoi clienti. Proviamo a considerare quella frase come elemento di verifica e confronto per la comunicazione commerciale di oggi. Se ci riusciamo, soprattutto per gli addetti ai lavori intellettualmente onesti, dovrebbe venir spontaneo aggiungere un punto interrogativo e cioè: la verità è ben detta? Quell’espressione, quella senza il punto interrogativo, sottintendeva che (solo) una verità ben detta ha il potere di creare un mercato sano, orientando le persone verso un’azienda o un prodotto. Ma era un’affermazione fatta da persone di un’altra epoca. La verità ben detta è un esercizio solo apparentemente facile perché, per dire la verità su un prodotto, quel prodotto bisogna conoscerlo davvero, per poi saperlo descrivere e trasmetterne un motivo condivisibile dal pubblico affinché possa essere acquistato. Una conoscenza che oggi è raramente resa possibile dal mitologico passaggio di consegne, fra azienda e agenzia, tramite il cosiddetto brief che è diventato oggi un documento troppo spesso sedicente e a priori assertivo. Non c’è più quel David Ogilvy che sapeva affermare e pretendere dai clienti di poter giudicare direttamente ogni prodotto di cui gli veniva affidata la comunicazione, distribuendolo o facendolo provare ai componenti della sua agenzia, per poterlo anche criticare proattivamente prima di determinare cosa dirne in proposito. Oggi i brief sono infarciti più da tempistiche capestro che da contenuti, più da diktat aziendali preconfezionati che da richieste di analisi, più da affermazioni sedicenti che da considerazioni da verificare. Anche le indagini, di cui si ama parlare, sono diventate strumenti addomesticati dai committenti per accelerare il risultato o per veder confermate solo le loro proprie soggettive convinzioni. E siccome le agenzie, anche quando dichiarano una certa artigianalità, agiscono ormai con logiche industriali e con obiettivi di sostenibilità del proprio business, ecco che la questione creativa prende il sopravvento sulla verità e, siccome la creatività è ancora qualcosa il cui profilo è poco definito, seppur fortemente comunicato, si assiste alla produzione di minifilm (o spot che dir si voglia) tecnicamente sopraffini, ma che sul piano dei contenuti hanno bisogno di interpreti che si siano formati nel mondo della psicanalisi. A chi vuole vedere, oggi la verità raccontata in uno spot è quella della somma della psiche degli individui coinvolti nella produzione, cioè dei delegati interni del cliente e dei responsabili delle agenzie con le loro “squadre creative”. Questo insieme di persone accomunate da un interesse economico ambiguo e difficilmente convergente, costringe poi “la vera fase di produzione” a lavorare con quel che passa il convento, limando compensi di fornitori e consulenti, cercando di ottenere sconti non trasparenti, facendo passare creatività discutibili per colpi di genio e tutto sempre con il limite di una velocità imposta che non ammette revisioni o controlli. Quella che oggi interrompe i programmi è la verità del compromesso. È una verità artificiale. Una finta verità, ben detta.

Pietro Greppi

ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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