CI VORREBBE UN “BEL” DASPO

Propongo un bel tavolo di discussione per decidere di istituire una sorta di daspo” per tutte quelle aziende e agenzie che producono campagne dai contenuti offensivi e irrispettosi a priori delle “attenzioni verso il prossimo”. Quelle sensibilità che dovrebbero essere spontanee, ma che i codici di comportamento di AGCOM e IAP devono cercare continuamente di tutelare. Entità queste che, effettivamente, si impegnano (o vengono impegnate) quotidianamente in questioni riguardanti le “scorrettezze” troppo spesso inserite nei contenuti della comunicazione commerciale trasmessa sui vari media. Per questo formulare un daspo pubblico lo ritengo sostenibile. Non sarebbe neanche troppo una provocazione. Anzi, si tratterebbe in fondo di tutelare con i fatti il decoro e la credibilità della parte sana di aziende e agenzie, difendendolo da piccoli e grandi cialtroni del mestiere che si mascherano dietro a budget corposi -o a sigle che li evocano implicitamente- come se il denaro potesse comprare qualunque licenza. Il fatto che “la vigilanza” sia costretta a impegnarsi spesso per dirimere questioni di “vario colore”, deve far riflettere sulle qualità delle persone che popolano il comparto. Ciò detto dovrebbe essere spontaneo ricercare una soluzione che fosse davvero deterrente, visto che quelle opponibili dai suddetti organismi non pare portino ad alcuna formazione di consapevolezza e responsabilità di coloro che dovrebbero invece averne più del “normale” per via dell’impatto che le loro personali scelte producono non solo sulle vendite di un oggetto, ma più spesso anche sul modo di intendere le relazioni sociali. Un “daspo pubblico” sarebbe quindi utile perché peserebbe più di una multa, scalfirebbe la reputazione, costringerebbe all’autoanalisi e alla riflessione e farebbe riflettere anche “il pubblico spettatore”.

Non credo si tratti di eccessiva ricercatezza verbale dire che gli inciampi comunicativi attuali, che siano provinciali, nazionali o internazionali, denunciano una certa ottusa supponenza imperialista derivata dall’idea di globalizzazione, tipica di chi intende colonizzare “altri” (in senso lato) sulla base del presupposto, superficiale e arrogante, che un prodotto sia “digeribile” da chiunque e ovunque collocabile con le medesime modalità conosciute e utilizzate dal globalizzatore a casa sua. Uscendo dal rischio retorico prendiamo un esempio che riguarda frequentemente l’attualità: non si possono più vedere campagne che usano corpi femminili per promuovere termosifoni. E non si dovrebbe più vedere uno scatto fotografico “di moda” che allude o ritrae pratiche violente. Eppure chi lo fa continua “a fatturare” e in alcuni casi fattura talmente tanto che si sente autorizzato (dal risultato commerciale) a proseguire in quei comportamenti che, ogni tre per due, alimentano -a ragione- la rabbia e la protesta di chi non ci sta nel vedere esposti “esempi” che qualcuno potrebbe fraintendere leggendoli come comportamenti ammessi. Certe immagini e contenuti che non accennano infatti a denunciare ciò che mostrano, innescano un dubbio interpretativo in quelle menti culturalmente fragili e intellettualmente confuse che si aggirano nella nostra società e di cui veniamo a conoscenza dai telegiornali quando si parla di tragedie. Questo riguarda solo uno degli aspetti (fra i più gravi) dell’uso improprio che viene troppo spesso fatto da chi diffonde contenuti commerciali. Perché poi ci sono anche i bugiardi, gli illusionisti, gli omettitori, i “neo” qualcosa, i lusingatori, i distratti che stanno alla comunicazione rispettosa quanto i vegani con gli hamburger. Una toppa a dire il vero lo IAP l’ha formulata “mettendo a listino” una proposta di intermediazione della liceità delle campagne prima della loro diffusione. Un lodevole intento che potrebbe però prestare il fianco all’obiezione sia sul potenziale conflitto di interessi che sulla questione del “chi controlla il controllore”. È importante che esistano dei punti di riferimento istituzionali, ma anche che serietà, intelligenza, buonsenso e onestà delle persone che governano e operano in questo settore possano identificarsi con chiarezza, premiandone tanto la presenza con l’assenso, quanto l’assenza con un bel daspo.

 

Pietro Greppi

ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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