Apple vs Escort

Apple ha già prodotto nel passato comunicazione abbastanza agghiacciante. Una quindicina di anni fa fecero uno spot ambientato durante una convention proprio della Apple. Steve Jobs interpretava se stesso e, davanti a una platea di adepti, celebrava i propri successi recitando una lettera arrivatagli da un bambino americano di 6 anni e mezzo. Questa lettera, diceva Steve Jobs, valeva più di qualunque analisi di mercato.

Ebbene il bambino raccontava che, facendo un gioco enigmistico, alla parola ’‘apple’’ non aveva associato la parola ’‘pie’’ ma la parola ‘computer’. In altri termini, la apple pie, monumento eterno dell’’alimentazione statunitense, luogo dell’’anima a stelle strisce prima ancora che torta, simbolo di una specifica cultura della famiglia e del focolare domestico, veniva soppiantata di colpo da uno strumento di lavoro. Secoli di evoluzione sociale spazzati nel tempo di un click.

Il paradosso non voluto stava nel fatto che Steve Jobs e i suoi si rallegravano del risultato: che bravi, che geniali siamo stati, che progresso abbiamo determinato, il nostro brand è diventato nella testolina dei bambini più importante della torta di mele. Io ho sempre immaginato che, appena tornato a casa, Steve Jobs avrebbe preso un sacco di legnate dalla vecchia nonna, la quale lo avrebbe costretto a cucinare una apple pie al giorno recitando a voce alta la ricetta, pena essere diseredato.

Oggi, in un tiepido venerdì di luglio anno del Signore 2013, in Italia, con la scuola pubblica che cade a pezzi, con i giovani peggio preparati d’’Europa, con ritardi culturali impressionanti rispetto agli altri paesi europei, Apple non smentisce la sua lungimiranza e sui quotidiani nazionali fa uscire una campagna che fa il paio con la torta: si vede una bella bambina di otto nove anni che, prima di addormentarsi la sera nel suo lettino, tiene in mano non un fumetto o un libro di avventure; neanche un album di figurine, i bigliettini della amiche, la foto firmata del divetto di turno. No, sarebbe antico, poco cool. 

Nelle mani la bambina tiene un computer. Naturalmente non c’è nessun adulto al suo fianco per guidarla. Potenzialmente la bambina potrebbe essere su un sito dove si inneggia al nazismo o si vendono kalashnikov. Il testo che affianca l’immagine barcolla nell’’incomprensibile con vertigini autoreferenziali: ’“’…siamo ingegneri e artisti, artigiani e inventori’…’”.

La Apple e Steve Jobs (che a tradurlo è Stefano Lavori, mica un nomino a caso) hanno avuto momenti di maggiore furbizia quando gli artisti li riconoscevano nei consumatori e non in sé stessi, in Bob Dylan e non in un programmatore di Cupertino. “Here’s to the crazy ones. The misfits. The troublemakers. The round pegs in the square holes. The ones who see things differently”. Peccato che quel ‘think different’ sia annegato nell’ oceano mediocre della rete. Pensare diverso non è mai stato previsto e mai lo sarà.

Conosco gli argomenti dei web addicted: le informazioni a disposizione di tutti, la condivisione, il social, il terzo mondo che si apre al mondo, la creatività che viaggia in ogni dove. Vecchie cazzate, cui oggi non crederebbe neanche Stefano Lavori.

Non esiste una sola madre o un solo padre sani di mente, senza traumi infantili tipo essere cresciuti al billionaire, che gioisca nel vedere il figlio di otto anni rintanato nel letto con un tablet. Voglio dire, anche Cetto Laqualunque si incazzerebbe come una iena.

Non dico che Cetto al figlio consegnerebbe un tomo di Salgari o un episodio di Asterix, ma una escort sì. La escort è assai più edificante del tablet, lo può confermare qualunque medico oculista. Nel caso voleste fare la prova, non fate la pazzia di buttare via il tablet. Non potreste avvalervi della sua funzione più perfetta: trovare la escort.

Riccardo Robiglio

riccardo@redcommunication.it

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *