Progettare l’antinebbia

Ho sempre letto tutti i curricula che ogni giorno ricevo con la posta elettronica. Salvo rari casi, anche quando non sono particolarmente interessato alle proposte, rispondo. Solo poche righe di scuse per non essere nella condizione di corrispondere alle aspettative del mittente, due parole di incoraggiamento, poi il cv di turno va ad aggiungersi alle molte centinaia raccolte nella cartella di Word.

Ultimamente ho notato che il numero delle persone che si presentano per un posto di lavoro è diminuito. Non so se ciò sia dovuto al fatto che l’appeal della mia società è sceso molto in basso, oppure se chi aspira ad entrare in un’agenzia di pubblicità, dopo innumerevoli tentativi andati a vuoto, si è messo il cuore in pace e ha smesso di cercare.

Potrebbe esserci anche una terza ipotesi: i giovani con tanto di Master in scienza della comunicazione, cocoproaddict e Macintosh-muniti, hanno aperto la loro brava partita IVA e si sono messi in proprio. 

Se questo fosse vero, ed è probabile che lo sia, ci troveremmo di fronte ad una vera e propria rivoluzione culturale, nerata dall’evoluzione ambientale e dal progresso tecnologico. L’effetto più evidente di tale rivoluzione, in questo periodo di vacche scheletriche, è la chiusura per fallimento di tante piccole e medie imprese di comunicazione e la contemporanea apparizione di una moltitudine di estemporanee microstrutture che sgomitano nel mercato brandendo l’unica arma disponibile: il low price.

Quando i “mulini erano bianchi” (il vecchio Sanna direbbe così) e la comunicazione commerciale godeva di un certo credito, il pubblicitario intraprendente cominciava a pensare di metter su una propria bottega solo dopo aver racimolato un bagaglio di esperienza, creativa e/o manageriale, frutto di anni di duro lavoro nelle agenzie e presso “studi” storici di Milano e Torino.

Nell’arco di un quarto di secolo, dalla metà dei Settanta al Duemila all’incirca, in Italia casi del genere se ne sono verificati non più di una cinquantina. E tutti riferibili a professionisti i quali, raggiunta una dimostrabile competenza e una certa notorietà, pensavano che il ruolo di dipendente cominciava ad andargli stretto.

Generalmente il plus competitivo che queste new entry mettevano sul tavolo del gioco era costituito da una forte caratterizzazione delle proposte creative e gestionali, dalla dinamicità e snellezza delle procedure, dall’assenza di snobismo quando si trattava di “sporcarsi le mani” con il cosiddetto below the line, e dal rapporto decisamente friendly che sapevano instaurare con i clienti. 

Ultimo, ma non secondario fattore di gradimento per le nuove agenzie (qualcuna si faceva chiamare “Boutique Creativa”), era la vicinanza fi sica delle loro sedi a quelle delle aziende utenti.

Un modello nuovo, quindi, tagliato su misura per un gran numero di piccole e medie imprese italiane (la famosa spina dorsale dell’economia nazionale) alle quali il secondo boom economico e l’avvento delle televisioni private aveva aperto l’autostrada della notorietà e dello sviluppo. 

Uno scenario idilliaco, si può dire, sul quale un brutto giorno ha cominciato a calare una nebbia sempre più fitta, fi no all’attuale buio totale. Rimando ad altra occasione le questioni del quando, del come e del perché quel modello è entrato in una crisi così profonda, e apparentemente irreversibile, al punto che, non solo il micro comparto non è più in grado di creare nuovi posti di lavoro, ma neppure di remunerare decentemente coloro che pervicacemente tentano di rimanere, come si usa dire, sul pezzo. 

Dall’euforia di un tempo siamo passati allo scoramento. In giro si sente dire che “La colpa è della crisi economica che ha indotto moltissime imprese manifatturiere e di servizi a tagliare gli investimenti, in primis quelli destinati alla comunicazione.”, che “I nuovi media hanno radicalmente modificato il comportamento del pubblico e dei consumatori.”, che “Ormai la sola pubblicità che fa vendere è quella che annuncia il taglio dei prezzi e le off erte speciali.” e che “Purtroppo, se uno vuole sopravvivere, non gli resta che buttarsi nel Web o mettersi ad impaginare i volantini e i volantoni per i supermercati.”. 

Naturalmente c’è anche chi si ostina a vedere il bicchiere mezzo pieno e cerca di dar corpo al proprio ottimismo esibendosi in virtuosistiche manifestazioni dell’arte di arrangiarsi. Low price, naturalmente.

A questo punto, la domanda che pongo a me stesso e a tutti quanti, interessati al problema, hanno avuto la pazienza di seguirmi fi no a qui: non sarebbe il caso, chiedo, che i Professionisti della Pubblicità in attesa che il tempo migliori (prima o poi dovrà pur succedere, no?) si attivino collettivamente per individuare una strategia di uscita dalla crisi e disegnare un nuovo modello di comparto, qualificato e autorevole, in grado di interfacciarsi credibilmente con i suoi naturali interlocutori nello scenario futuro?

Per una categoria di professionisti che si è sempre vantata, e spesso ha dimostrato, di essere in grado, per creatività e competenza, di garantire affermazione e sviluppo ai propri clienti, non dovrebbe essere una missione impossibile. 

Bruno Zerbini

bruno@brunozerbini.com 

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