La mediazione non è più obbligatoria
Sembrava che, con l’introduzione della mediazione obbligatoria, nel 2010, si sarebbe realizzato quell’effetto deflattivo e decongestionante della giustizia ordinaria civile. Nelle materie previste, infatti, il tentativo di mediazione doveva precedere l’avvio di una causa e, quindi, giustificare una risoluzione alternativa delle controversie.
Le azioni per le quali il D.Lgs n. 69/2010 prevedeva l’obbligatorietà riguardavano settori ad alto contenzioso: il condominio, i diritti reali, le divisioni, le successioni ereditarie, i patti di famiglia, la locazione, il comodato, l’affitto di aziende, il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, ma anche la responsabilità medica, la diffamazione a mezzo stampa o con altri mezzi di pubblicità, i contratti assicurativi, bancari e finanziari.
La mediazione, oltre ad essere obbligatoria, era altresì onerosa, nel senso che prevedeva il pagamento delle indennità previste dalla legge ai mediatori e comunque allungava il giudizio, nel caso in cui non avesse sortito effetto, essendo previsto che il procedimento di mediazione non durasse più di quattro mesi, riverberando, quindi, tale tempo sul procedimento di merito.
Fortunatamente, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del decreto legislativo sopra indicato, nella parte relativa all’obbligatorietà della mediazione, per eccesso di delega legislativa, accogliendo così le istanze di buona parte dell’avvocatura e dei giudici che avevano sollevato la questione di legittimità.
Si era evidenziato che la previsione della condizione, onerosa, del passaggio obbligatorio dalla mediazione per poter adire il giudice rendeva, in realtà, molto difficile per i cittadini l’accesso alla giustizia.
Ma la vera anomalia era costituita dall’obbligatorietà di un istituto che è efficace solo se conseguenza di una scelta delle parti, scelta che può essere anche di opportunità. Effettivamente appare assurdo obbligare le parti a conciliare, anche perché la via transattiva viene generalmente già sperimentata prima di dare corso ad un giudizio, al quale si perviene solo se non vi è stata la possibilità di trovare una diversa soluzione.
Tutti conoscono quanto sia costoso, in termini di tempo e di denaro, l’accesso ai tribunali. L’impossibilità a conciliare può derivare dalla caratterialità delle parti, ma anche dalla oggettiva inconciliabilità delle posizioni, da quel malinteso senso di ragione, che spesso acceca, quando sono coinvolti determinati diritti, davanti ai quali non si riesce a rimanere obiettivi.
Come non ha alcun senso obbligare una persona a sottoporsi a un colloquio con uno psicologo, analogamente è cosa priva di ragionevolezza pensare di obbligare le parti a mettersi d’accordo.
E’ infatti evidente come, nel caso in cui manchi del tutto la volontà conciliativa, la mediazione, quando è un obbligo, si trasformi in una mera farsa. Sopravvive, alla pronuncia della Consulta, la mediazione facoltativa, nella quale la conciliazione è ricondotta alla volontà delle parti.
Certamente rimarrà penalizzato quell’intento deflattivo della giustizia civile, che aveva ispirato la norma oggi dichiarata affetta da illegittimità costituzionale, ma ne guadagnerà la libertà dei contendenti.
Il ricorso a formule alternative di risoluzione delle controversie, infatti, è giustificato quando è frutto di una volontà esplicita delle parti, non quando diventa una forma indiretta di privatizzazione della giustizia.
Fiammetta Malagoli
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