LADRI DI FOTOGRAFIE (parte seconda): LA LIBERATORIA

Il mondo della fotografia è pieno di aneddoti noti solo agli addetti ai lavori. Grazie a Guido Alberto Rossi, importante fotografo e appassionato viaggiatore, ne scopriamo alcuni in questo secondo appuntamento con lui che, con il suo stile leggero, riesce a farci sorridere pur raccontandoci vicende imbarazzanti come quelle generate da una semplice “liberatoria”.

“La liberatoria non è il nome di una pizzeria e neanche quello di una bella signora che si libera dei vestiti: è invece il documento legale che autorizza il fotografo o il cliente all’utilizzo delle immagini di un soggetto che ha lavorato come modello/a. È una specie di contratto tra due professionisti, indispensabile per poter usare le foto fatte, ed è chiamato in gergo Model Release (in inglese fa più scena): in pratica il diritto d’immagine della persona ritratta. È indispensabile per poter pubblicare delle foto che ritraggono persone (non è necessario nelle foto giornalistiche di fatti di cronaca). Oltre alle persone è necessario anche per i beni materiali come case, barche, animali etc. e in questo caso -sempre in inglese- si chiama Property Release. Nel corso della mia carriera, sia come fotografo che come titolare di agenzia fotografica, ho scoperto che spesso chi sta “dall’altra parte del banco” non ha ben chiaro come funziona la questione. Ricordo vari casi finiti per vie legali di modelle che, nonostante la liberatoria firmata per il lavoro svolto, sono state illuse da avvocati cialtroni che, promettendo ricchezze fantasiose, hanno trascinato in tribunale tutte le parti in questione: fotografo, agenzia pubblicitaria e cliente finale, sperando di estorcere compensi non dovuti ad almeno una delle parti. Fortunatamente i giudici non sono mai cascati nella trappola e hanno sempre riconosciuto il valore legale della liberatoria facendo anche pagare le spese legali alla controparte. Ci fu addirittura il caso di una ragazza dal grande seno e per quel motivo ritratta che, illusa da un avvocato “alla Danny DeVito”, perseverò nell’intentare causa perdendo fino in cassazione. Condannata a pagare una grossa somma, sparì dalla circolazione per alcuni anni. Poi grazie a Facebook si scoprì che aveva sposato un ricco americano e si era trasferita negli USA. Un avvocato altrettanto perseverante è poi riuscito a recuperare il dovuto. Ma spesso mi è anche capitato d’avere a che fare con art director o art buyer asini che della liberatoria ignoravano anche l’esistenza. Sia io che le ragazze della mia agenzia abbiamo evitato alcuni pasticci a molti di questi personaggi che altrimenti sarebbero loro costati “un sacco” di euro in risarcimenti. Tra i casi più clamorosi ricordo la richiesta per una foto di un notissimo attore americano fatta in studio, archiviata nel nostro sito, per utilizzarla insieme ad un prodotto alimentare in una mega campagna stampa. Alla lecita e doverosa domanda da parte nostra se avessero e quindi potessero mandarci la liberatoria firmata dall’attore, ci siamo sentiti rispondere dall’altra parte del telefono -da una buyer asina ed arrogante- che non erano affari nostri e che non era tenuta a farci avere niente. Gentilmente, ma con molta fatica, le abbiamo suggerito d’informarsi con qualcun altro al loro interno e di farci sapere. Chiamò il giorno dopo chiedendo di trovarle una foto di un modello (con liberatoria) che assomigliasse al divo. No comment. Ci fu anche un caso contrario, di un art director che la liberatoria la voleva. Peccato si trattasse della foto di due talebani (reali) che sparavano come matti in una via di Kabul, che il fotografo aveva immortalato a rischio della propria pelle. A volte risulta più facile comprendere i talebani che un art director. Ma il caso più clamoroso è avvenuto una ventina d’anni fa, quando usci una campagna -che prevedeva stampa e affissione- con protagonista un notissimo suonatore di tromba, nero, americano, sempre sudato (non faccio nomi, ma sono sicuro che avete indovinato). Una bellissima foto scattata da un grande fotografo. Peccato che nessuno aveva mai chiesto i diritti al jazzista e al fotografo per l’utilizzo. E non parliamo di aziende di poco conto. Finì bonariamente con un pesante assegno. Ma la cosa interessante è che tutto successe perché un giovane art director prese la foto da un libro, non si sa se per asineria o se per offrire solo un esempio per il layout che aveva immaginato e composto. Sta di fatto che tutta la “catena umana” fino al cliente finale dette per scontato che era tutto in regola e approvarono incautamente l’uso di quella foto. Dell’art director non si sono più avute notizie.”

Pietro Greppi

Ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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