LA MORTE DEL PACKAGING

È una vita breve quella del packaging che dura meno del tempo necessario per discuterlo, idearlo, disegnarlo e realizzarlo, con alcune rare eccezioni, come quella dei medicinali, che essendo consumati in tempi relativamente lunghi la scatola la tieni anche per conservare l’utile bugiardino. Tuttavia l’inesorabile destino del packaging prima o poi è la spazzatura. Comunque sia, ciò che in italiano andrebbe chiamato imballo, confezione o abbigliaggio, gli “addetti ai lavori” preferiscono chiamarlo packaging, scelta che pare trasmetta loro maggiore soddisfazione e particolari intimi significati alla stregua di un placebo per la gratificazione professionale. Come per un placebo basta crederci e funziona. Più complicato è invece capire quali siano i meccanismi che entrano in gioco in ognuno di noi quando davanti a prodotti sostanzialmente identici, ma presentati in modi differenti, ce n’è sempre uno che ci attira di più per via della sua confezione. C’è chi le studia queste cose. Ma è talmente misteriosa e complicata la nostra mente che, onestamente, nessuno può dire di essere davvero capace di capire perché facciamo certe scelte. Nessuno lo ammette esplicitamente, ma ognuno dice la sua. E allora anch’io non voglio mancare. Ritengo sia evidente che in realtà nessuno ha le idee chiare in proposito. La prova è proprio la quantità di diverse confezioni che troviamo in circolazione per prodotti a volte identici nella sostanza e nella funzione. Se davvero ci fosse una spiegazione certa e sempre valida alle nostre reazioni, allora logica vorrebbe che la soluzione dovrebbe essere una sola e a quel punto la gara commerciale rimarrebbe sul prezzo e sulla reputazione del venditore o su chissà che altro. Bisognerebbe sentire Kotler che se ne esce ogni tanto con altre “P” da venderci. Ne suggerirei una inesplorata, ma molto esplicita: “Puttanate”. Mi si accuserà di semplificare troppo, ma per me è molto più probabile, anche se non si vuole ammettere, che il costante ricorso all’artificio del vestito nuovo e originale per ogni prodotto sia solo la manifestazione di un’ostinata, legittima e infinita “gara dei tentativi” per consentire ad ognuno di provare le proprie teorie e, cosa non marginale, di avere anche un lavoro. Per vendere si fa così… no, colà… invece questo è il modo… E poi in pratica accade che solo i consumatori, veri e incontrastati giudici di questa “gara”, esprimono il loro giudizio (come un “award” del tutto personale) attraverso l’applicazione dell’auto persuasione, scegliendo soggettivamente ciò che li convince di più. Da cui deriva il conseguente scambio di affermazioni fra gli addetti ai lavori nel definire quale sia la “soluzione” più gettonata…

Quasi mai riflettiamo seriamente, guardando i colori, le forme, le immagini di tutte quelle confezioni, sul fatto che ciò che vediamo è stato studiato intenzionalmente da un nostro simile per tentare, a modo suo, di trasmetterci la sua idea di quel prodotto inventandosi una personalità artificiale da trasmetterci. Ci piace invece credere, anche solo per alcuni istanti (quelli necessari per scegliere), che tutti quegli abbigliaggi (e non da meno i marchi) rappresentino qualcosa di vero, come fossero l’espressione della personalità autonoma di quel prodotto. Insomma mozzarelle, tagliaerba, cioccolatini, brioche, lenticchie, salami, tostapane, telefoni… avrebbero deciso come vestirsi e come truccarsi per farsi desiderare da noi. Succede quindi che alla fine scegli, se ti va, quello la cui confezione “ti convince” di più, lo prendi, vai a casa e lo ripulisci di tutte quelle sovrastrutture che lo facevano apparire diverso da com’è in realtà. In qualche modo “gli fai la doccia e lo riporti acqua e sapone”. Gli togli di dosso il packaging, che non serve più “a sognare” e che quindi butti nell’immondizia… e alla fine (se torni in te) osservi che hai comprato solo una mozzarella, un tagliaerba, un cioccolatino, una brioche, lenticchie, salame, un tostapane, un telefono … e riscopri che la verità è sempre nuda e cruda.

A dispetto di coloro che insistono nell’affermare che la pubblicità deve sedurre, ci sono patologie da cui dobbiamo cercare di guarire. Magari imparando a riconoscere certe cose per quel che sono, catalogandole sotto ancora un’altra P, quella di “Palle”.

Pietro Greppi

Consulente per la comunicazione etica e fondatore di Scarp de’ tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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