IL VIRUS DEGLI AGGETTIVI “MESSI LÀ”.

Chi lo fa non se ne rende neanche più conto: nella comunicazione commerciale (ma non solo in quella ahimè) si è abbondantemente diffuso il virus dell’aggettivazione autocelebrativa. E il pubblico dei consumatori (e gli stessi comunicatori), negli anni, vi si è evidentemente abituato, rimanendone influenzato e a sua volta contagiato, diventandone un veicolo replicante.

C’è chi gioca consapevolmente sul fatto che siamo esseri che apprendono da ciò che gli accade, che li circonda e da quanto gli giunge. Chi ha il potere economico di farsi sentire spesso e in ogni luogo allora, facendolo, ha anche l’opportunità di aggiungersi al tuo “bagaglio di “conoscenze”. Ovviamente la differenza la farà il genere e la qualità del bagaglio che porterai con te. Con che consapevolezza usiamo gli aggettivi? L’“aggettivazione autocelebrativa” è quella con cui molte aziende popolano la narrazione dei loro prodotti. Un comportamento che appartiene tipicamente allo spirito della “proprietà ceduta a pagamento”, chiamata più comunemente “commercio”.

Un esempio fra i più banali, che offre un interessante spunto di analisi è la formula del “… e per lei un gradito omaggio…”. Si tratta di una maldestra ed errata traduzione dall’inglese “welcome gift” che -tra l’altro- evidenzia i danni alla lingua italiana derivati dalle interferenze di una lingua straniera (ma il tema dell’inglese merita un articolo a parte perché è una questione delicata e divisiva). La formula appena citata viene spesso utilizzata nella pubblicità cosiddetta “hard sell” perché molto assertiva, forzata e diretta. Va notato che contiene l’aggettivo “gradito”, il cui inserimento è fuori luogo: l’affermazione viene infatti da chi l’omaggio lo dà, e non, come dovrebbe essere, da chi lo riceve. Questo difetto non esiste nella forma inglese il cui tono è molto più “sensato ed elegante”: “welcome gift” significa infatti più semplicemente “omaggio di benvenuto”, che è tutt’altra cosa e ha un senso.

Altro esempio, questa volta non derivante da una traduzione impropria, è l’uso di aggettivi (in genere superlativi) come “straordinario, grandioso, indimenticabile, fantastico, mozzafiato… ” utilizzati per auto-qualificare un evento o un prodotto:  anche qui chi attribuisce quegli aggettivi è chi quegli eventi o quei prodotti li presenta o li vende e non –come ci si aspetterebbe fosse- chi vi ha partecipato o chi li ha provati, che potrebbe legittimamente attribuire un aggettivo alla sua esperienza e che, essendo soggettivo, sarebbe reale ed onesto. Ma ecco che con tale consapevolezza le aziende o i loro complici (le agenzie e i sedicenti “creativi”) anziché correggere l’abitudine autocelebrativa intimamente falsa, cercano invece di attribuire credibilità alle affermazioni di più o meno improvvisati “testimoni” producendo interviste e testimonianze a pagamento o “guidate”… e qui entreiamo in un altro campo, quello dell’etica che non c’è.

Quelli citati sono tuttavia solo alcuni degli esempi più frequenti, non i soli e non i più scorretti, che testimoniano come il linguaggio dei pubblicitari tenda ad un uso particolarmente superficiale delle parole. Sempre più spesso la sensazione è che il vuoto di certi messaggi venga riempito con “secchiate” di parole fino al consumo dei trenta secondi disponibili.

Certe abitudini e certe frasi entrano così nel quotidiano e, come le tradizioni, entrano nelle esperienze “professionali” che vengono tramandate anche da scuole di comunicazione dove docenti prestati al settore passano ore a descrivere l’efficacia commerciale di queste “soluzioni”. Molti pubblicitari, sia maturi che di primo pelo, le inseriscono per abitudine nelle campagne su cui lavorano, semplicemente perché “sanno che funzionano” (ahimè! Ma con chi?), senza riflettere sulla scarsa serietà che dimostra l’usarle. E la pubblicità contribuisce generosamente alla loro diffusione nutrendosene spesso e volentieri rischiando però di svuotarle dei significati originali e trasformandole in battute senza senso, nella convinzione che siano utili al prodotto cui si accompagnano o che possano convincere lo spettatore. Se mi permetti i tuoi prodotti decido io se sono straordinari, normali o niente di che.

Pietro Greppi

ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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