UTILE O DILETTEVOLE?

La comunicazione commerciale, o pubblicità che dir si voglia, è utile o dilettevole? Forse entrambe le cose? Perché no!? Una di queste prevale forse sull’altra? Dovrebbe? Perché?

A leggere o ascoltare la storia e le motivazioni che via via, nel tempo, si sono affermate fra gli addetti ai lavori e nelle aziende, producendo ogni genere di supporti e iniziative a proprio sostegno, sembra che la risposta sia solo una: la pubblicità è utile. E chi vi è coinvolto pare la trovi anche dilettevole. E in fondo lo è. Non si spiegherebbe altrimenti la fascinazione che producono tutte le professioni formatesi intorno al settore della pubblicità. Sono sempre molti infatti i giovani attratti dall’idea che il settore stesso offre di sé, con i bagliori tipici del comparto. Mi spingo ad affermare che l’attrazione è molto simile a quella prodotta dal mondo dello spettacolo e della moda in tutte le loro forme. Ambiti che hanno in comune la creatività e una certa idea di libertà. Un pubblicitario famoso si spinse a definire la pubblicità con una frase d’effetto, spesso ripresa fra l’apprezzamento e l’autodenuncia, che probabilmente contribuì a renderla attraente: “La pubblicità? Sempre meglio che lavorare”. Molti ci videro una strizzatina d’occhio. E si formarono le code di giovanissimi davanti alle agenzie.

Torniamo alla domanda retorica, ma provocatoria, del titolo, e cioè sull’utilità e sulla potenziale occasione di divertimento che offre la pubblicità. Considerando che questo particolare settore della comunicazione umana nasce per scopi squisitamente commerciali (e più raramente come informazione pura) non si può evitare di riflettere sul fatto che chi lo sente come una necessità funzionale allo sviluppo della propria attività, lo debba ritenere senza dubbio intimamente “utile”.

È chi poi se ne occupa, su mandato del committente, che genera la qualità dell’approccio alla comunicazione. E in questi ultimi 20 anni il comparto -complice la tecnologia- si è sempre più orientato verso una narrazione carica di immagini e situazioni artificiali, condite con parole fintamente impegnate, combinate secondo stili sempre più simili fra loro, sempre meno significanti e distintivi e tuttavia percepibili come risposte ad “una ricerca di significato”. Per chi assiste dall’esterno, ma con spirito critico professionale, ai numerosi teatrini prodotti dal mondo dell’advertising, è inevitabile cogliere i tanti segnali di disagio e di desiderio inespresso, mascherati da entusiasmo, che sul piano psicologico trasmette la produzione pubblicitaria “moderna”. Assistiamo infatti più alla rappresentazione dell’“IO” dei pubblicitari coinvolti -e a volte dei dirigenti del mandante (la Marca)- che alla spiegazione del significato dell’esistenza di un prodotto. Sembra restare marginale la considerazione (invece rilevantissima) che tutti quei teatrini producano costi che sempre meno possono qualificarsi come investimenti, per la poca aderenza alla loro funzione più basica: giustificare l’esistenza del prodotto con argomenti riscontrabili nella realtà e oggettivamente percepibili come utili a chi lo sceglierà. E di questo i committenti sembrano non rendersene conto, coinvolti essi stessi dalla fascinazione dell’occasione dilettevole di fare pubblicità, sperperando irresponsabilmente risorse economiche che potrebbero destinare in modo più utile, responsabile, coerente e assennato. Potrebbero e dovrebbero, perché la pubblicità assorbe e coinvolge una quantità talmente rilevante di capitali, di professioni e di persone che, se fosse inutile, sarebbe uno spreco enorme. Recenti ricerche confermano che i numeri prodotti da questa articolata espressione del settore della comunicazione sono di tutto rispetto, e gli attori che ne sono protagonisti non perdono ovviamente occasione per sottolineare il peso della loro presenza nell’economia del Paese. Anche considerando solo le agenzie digitali (espressione diretta della trasformazione in corso un po’ ovunque) queste concorrono a generare l’ 1,7% del PIL del Paese (circa 27 mld). Notevole. Ma sono numeri che non parlano della qualità di quanto viene prodotto direttamente e indirettamente e della qualità delle reazioni che provoca. Ed è su questo che il comparto dovrebbe concentrarsi per assumere un ruolo più autorevole e credibile, lavorando più sulla propria utilità e meno sul diletto che è in grado di allestire.

Pietro Greppi

Ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis

Fondatore del Laboratorio per la realizzazione del Linguaggio universale non verbale

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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