Illuminati cercasi

La creatività è anche la capacità di vedere cose in modo diverso dagli altri. Per esempio se riflettiamo sul fatto che, quel che abbiamo, è dagli altri che lo abbiamo ricevuto o preso, cose come gli investimenti potremmo creativamente rinominarli “forme di restituzione” e in quanto tali suggerire di orientarli dove possano portare benefici più diffusi, mirati e alti e capire che restituire può essere una forma di gratitudine. Non sono pensieri politici o di economia e forse neanche di filosofia, però da qui potremmo allargarci e pensare che in un Paese sano e popolato da persone intelligenti, integre, positive, consapevoli e libere, un’azienda dovrebbe misurarsi non da un banale bilancio, ma dal valore, dall’utilità e dal significato di ciò che essa fa per la comunità in cui opera, grande o piccola che sia la comunità o l’azienda. Un’azienda che, secondo i comuni canoni, fallisce potrebbe comunque risultare in credito con la società per l’importanza delle cose che ha fatto. È il pensiero l’area critica in cui si può seriamente misurare lo spessore di quell’ingegno, quella “creatività”, da cui scaturiranno determinate azioni. Per questo guidare o scegliere una guida è un atto di fiducia e di grande responsabilità. Perché le qualità di chi guida, quali che siano, si trasferiscono inevitabilmente nelle sue scelte. Ed è per questo che la creatività di cui dovremmo sentire il bisogno è quella delle persone illuminate da certi pensieri che, davanti a quello che vedono tutti, sanno vedere il lato non visibile. Non sono persone speciali a meno che non vogliamo definire speciali coloro che scelgono di fare cose che altri temono di fare.  Ogni azienda potrebbe scegliere di comunicare la sua presenza anche osservando semplicemente il mondo reale e decidere di riempirne i vuoti, le carenze, le necessità, cercando cioè quello che manca davvero alle persone, quelle reali, le stesse a cui chiede di spendere per comprare i suoi prodotti. Si può fare. Serve capire la vita reale così com’è e inserirvi azioni utili, soluzioni ai problemi, creare ciò che manca davvero. Attività insomma che aderiscano alle più semplici e reali esigenze delle persone, che in fondo sono anche facili da individuare. Ma farlo richiede impegno e libertà di pensiero … qualità che non vengono stimolate spesso quanto la spinta a comprare un biscotto. A partire dalle emergenze, fino alle esigenze particolari meno drammatiche e più o meno diffuse, il nostro Paese potrebbe crescere in armonia con il contributo delle stesse aziende che “ogni giorno” un contributo lo ricevono da chi compra i loro prodotti. Praticare la restituzione insomma dovrebbe essere sistematico. La cultura stessa della restituzione andrebbe insegnata, introdotta, assimilata e comunicata per stimolare l’emulazione di quei comportamenti per i quali vale la pena scomodare “l’informazione”. “Restituire” dovrebbe

diventare una pratica comune istituzionalizzata come qualunque altra attività d’impresa. Ma quello che ci frega tutti è che ci formiamo immersi in contesti che educano ad essere migliori degli altri e non migliori e basta, con il risultato che produciamo contemporaneamente ricchezza e marginalità sociale, che tutto è tranne un esempio di cui andar fieri.  Quello attuale è un sistema freddo che alimenta l’egoismo in tutte le sue forme, inducendo a pensare soprattutto al vantaggio personale … e questo inevitabilmente porta al conflitto. Ci sono alcuni rari imprenditori illuminati, ma manca spesso la loro piena consapevolezza del potere dell’esempio, ancora troppo nascosto tra le pieghe di una riservatezza che non ha motivo di essere. L’idea di restituire è un’azione che produce addirittura un rendimento, anche se di un tipo molto particolare. Di quelli che non si leggono sui listini di Borsa, ma negli occhi delle persone. Certo bisogna sapersi guardare intorno, saperlo e volerlo fare o essere stimolati a farlo.

Pietro Greppi

Ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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