AMORE?

Pietro GreppiÈ il caldo forse, ma la confusione dilaga nel mestiere dei creativi dell’ADV. E sospetto che anche quando farà freddo non sarà molto diverso. Una confusione colpevole, immensa ed evidente è nelle parole e nei messaggi che i moderni creativi utilizzano sempre più spesso nelle campagne profumatamente pagate dai loro committenti. Messaggi e parole che meriterebbero tutt’altra attenzione, contesto e delicatezza, vengono buttati lì e giustificati o spacciati per iperboli, ironia e metafore che alla fine assumono significati ridicoli, insulsi, stupidi, fuori luogo e tutt’altro che ironici, diventando offensivi per l’intelligenza dello spettatore. Un esempio su tutti: la parola “amore”. Se ne abusa al punto che viene introdotta in ADV invitando ad avere questo sentimento per una lavastoviglie. Messaggio anche controverso visto che “arriva” da un detersivo il cui nome significa “finire” che fuori dal contesto suona come “porre fine” (ma questo aspetto riguarda un tema – che tratterò – sull’abuso dei termini inglesi che invadono la cultura italiana già claudicante di suo!). Ora mi si potrà dire che esagero, che si sa che è pubblicità e che quindi va presa così, alla leggera, ma a suon di leggerezza si sdoganano e assecondano comportamenti e atteggiamenti che sfociano in quel degrado culturale considerato poi alla stregua di battute. Fino a scoprire che quelle battute entrano nel gergo quotidiano dei più labili che, nel ripeterle “per scherzo”, di fatto fertilizzano il terreno dove spuntano la violenza e la volgarità, quasi sempre di genere, a cui assistiamo con triste rassegnazione non sapendo a chi attribuirne l’esistenza. Riferimenti indiretti all’amore, che soccombe puntualmente a rapporti più “di carne”, li troviamo suggeriti anche da attori del cinema testimonial strapagati (sì è una critica!) per irretire paesane con la scusa di una scatoletta di tonno, una patatina o una rete telefonica facendo scoppiare gli ormoni di mogli che giocano con imbarazzanti doppi sensi. L’amore tradito appare anche tra le tende da sole dove una lei fa piedino all’amico del marito, presente il marito. E via così, sempre ripetendo lo stereotipo dell’uomo conquistatore e della donna, bella ma ebete o mangia uomini o sempre in cerca di alternative al compagno attuale. Ora molti colleghi insistono nel dire che la pubblicità rispecchia semplicemente gli atteggiamenti e i valori della cultura circostante. Forse che parlano di una loro verità? Di una loro visione del mondo? Fosse così sarebbe bene lasciassero libero lo spazio che occupano, dal quale usano il potere di descrivere ad altri un mondo distorto. Che diamine gente, ma è mai possibile che i pubblicitari italiani – che poi lamentano di non venir premiati – vivano unicamente di doppi sensi, allusioni e insinuazioni? E i responsabili delle aziende dove sono, cosa dicono, per cosa pagano? Di che argomenti si nutre chi si permette di trattare così i propri interlocutori e le risorse economiche che vengono impiegate per promuovere i propri prodotti? Reiterare un tale comportamento trova giustificazione solo nella mente di costoro e di chi li imita. Una veloce verifica di psicanalisi di chi agisce in quel modo consentirebbe probabilmente di scoprire che quello sguaiato e insensato uso di parole e messaggi, rivela una pochezza di sentimenti. Credo sia arrivato il momento di finirla e di dirlo chiaramente che, data la forte e “involontaria” (fino ad un certo punto) capacità formativa dell’intero sistema della pubblicità, chi lavora in questo contesto deve recepire e assumere, “con le buone o le cattive”, la consapevolezza della responsabilità che ha nei confronti di tutti coloro che entrano in contatto con quel che diffonde. Basta. È bene ripeterlo, a chi dovesse sentirsi tirato in ballo, che la pubblicità funziona sempre, sempre suo malgrado e nonostante sia sempre più spesso praticata da sedicenti professionisti che di professionale hanno mantenuto solo i compensi. Detto questo, concludo dicendo che osservo sgomento il proliferare della costruzione di modelli che, se una volta potevano appartenere a beceri luoghi comuni da osteria, oggi, complici forse i frequentatissimi happy hour (essi stessi risultato della rappresentazione creativa e suggestiva del consumo modaiolo di alcolici), si traducono in comportamenti reali. E c’è qualcuno che comincia a parlare di realtà aumentata. Che paura!

Pietro Greppi

ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis, fondatore del Laboratorio per la realizzazione del Linguaggio universale dei segni – non verbale

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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