Agente sarà lei

Non essendo segreti, speciali, di commercio, teatrali, di ordine pubblico e neanche immobiliari, i pubblicitari che agenti sono? In breve, perché le agenzie si chiamano agenzie?

Dovrebbero chiamarsi società o studi di consulenza e invece no, sono agenzie, termine che, nessuno si adiri, sottende un’attività in qualche modo meno qualificata di altre. 

Ebbene, nell’apparente innocenza della parola agenzia risiede simbolicamente la cronica, scarsa autorevolezza del pubblicitario. Il fattaccio risale a tanto tempo fa, quando le agenzie erano a servizio completo, cioè con reparto media incorporato e incaricato di acquistare spazi da parte del cliente presso i concessionari.

Il compenso per l’agenzia, in quanto intermediari verso i concessionari di pubblicità, era una percentuale dell’investimento. Intermediari, quindi agenti, quindi agenzia. Si evince che il mestiere del pubblicitario non era considerato centrale.

Era un corollario e come tale veniva pagato. Magari anche tanto, ma non direttamente, non in base a un contratto di consulenza, non in base a un rapporto di fiducia professionale.
Nel corso dei decenni il nome non è cambiato e, qui sta il punto, anche la percezione più diffusa ricalca quello schema. Raramente un manager si reca alla riunione con l’agenzia pensando che sia vitale per le sorti dell’azienda, per il profitto.

Non pensa, come quando incontra McKinsey, che ha l’onere di parlare con consulenti preparati e muniti di tassametri ugualmente svegli. Pensano di incontrare degli pseudo professionisti.

Degli agenti. Per ribaltare questa situazione bisognerebbe che i consulenti pubblicitari diventassero consulenti pubblicitari e i manager d’azienda manager d’azienda. Qualcuno ci è riuscito, pochi ma ce l’hanno fatta.

In attesa diventi costume, la soluzione potrebbe essere quella di non usare mai più quella parola, quella che inizia per a e finisce per a.
Mai più. Magari può aiutare a non diventare in breve tempo patogeni.
 

Riccardo Robiglio


riccardo.robiglio@leoburnett.it

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